Vocabolario della Scuola

Guida al vocabolario della Scuola

Cos'è

BES

DSA

USR

GLIR (Gruppo di Lavoro Interistituzionale Regionale)

Collocato presso l’Ufficio Scolastico Regionale (USR). È presieduto dal dirigente dell’USR o da un suo delegato e ha come altri membri, i rappresentanti delle Regioni, degli Enti locali e delle associazioni delle persone con disabilità. Opera quindi a livello regionale.

GIT

Presso ciascun ambito territoriale provinciale, invece, è istituito il GIT, il Gruppo per l’Inclusione Territoriale. Entrato in funzione a partire dall’anno 2019, il GIT collabora con l’USR e il GLIR e tra le principali attività che svolge compaiono:

  • il supporto alle istituzioni scolastiche nella definizione del PEI (Piano Educativo Individualizzato) secondo la prospettiva bio-psico-sociale indicata dall’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) dell’OMS;
  • l’utilizzo e il potenziamento dei sostegni disponibili nel Piano per l’inclusione di ogni scuola.

Il GIT, infatti, si occupa delle richieste relative alle misure di sostegno, che i dirigenti scolastici inviano all’Ufficio Scolastico Regionale.

Fanno parte del GIT i seguenti profili:

  • dirigente tecnico o dirigente scolastico;
  • personale docente qualificato ed esperto nell’ambito dell’inclusione e delle metodologie didattiche inclusive.

Tuttavia, possono partecipare al GIT anche le associazioni del territorio che rappresentano le persone diversamente abili, le ASL e gli Enti locali.

GLI

Il GLI è il Gruppo di Lavoro per l’Inclusione ed è presente in ogni istituzione scolastica a partire dalla sua introduzione nel settembre 2017. È costituito da:

  • dirigente scolastico (che nomina il GLI e lo presiede);
  • docenti di sostegno;
  • docenti curriculari;
  • personale ATA;
  • specialisti della ASL.

Il GLI si occupa del supporto al collegio docenti nella definizione del Piano per l’Inclusione (parte del PTOF della scuola) e nell’attuazione dei PEI nei consigli di classe. Tra i documenti che redige compare il Piano Annuale per l’Inclusività (PAI).

GLO

Introdotto con il DLgs 66/2017, in sostituzione del GLH (Gruppo di Lavoro Handicap), il GLO è il Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione e si occupa degli interessi e dei bisogni di ogni alunno della scuola con un’accertata condizione di disabilità. IL GLO è presente, infatti, in ogni istituto scolastico ed è formato da:

  • docenti specializzati sul sostegno e docenti curriculari (che costituiscono il team di insegnanti contitolari o del consiglio di classe);
  • i genitori (o chi esercita la responsabilità genitoriale) dell’alunno in situazione di disabilità;
  • l’alunno con accertata condizione di disabilità;
  • figure professionali specifiche, esterne e interne, che collaborano e interagiscono con la classe e con l’alunno diversamente abile (ad esempio i collaboratori scolastici, gli assistenti educativo culturali e/o gli assistenti per l’autonomia e la comunicazione, i terapisti e gli specialisti dell’Unità di Valutazione Multidisciplinare dell’ASL).

Tra i compiti più importanti del GLO compare la stesura e la definizione del Piano Educativo Individualizzato (PEI). Tuttavia, il GLO è responsabile anche della verifica del processo di inclusione attuato nella scuola e, tenendo conto del Profilo di Funzionamento degli alunni, si occupa della proposta della quantificazione delle ore di sostegno e delle altre misure di supporto da utilizzare in classe.

PEI

Il PEI (Piano Educativo Individualizzato) è un modello di inclusione scolastica rivolto ad alunni con un’accertata condizione di disabilità. Ha lo scopo di assicurare il rispetto delle norme che garantiscono il loro diritto allo studio. Si tratta quindi di un documento di progettazione didattica di durata annuale che realizza un ambiente di apprendimento che possa promuovere lo sviluppo delle facoltà e il soddisfacimento dei bisogni educativi individuati per gli alunni con disabilità.

È uno strumento che è parte integrante della programmazione didattico-educativa della classe, e comprende:

  • informazioni e dati sulla patologia dell’alunno;
  • obiettivi educativi e strategie didattiche;
  • itinerari di lavoro con indicazione di attività specifiche;
  • metodi, materiali, sussidi, tecnologie e orari per organizzare la proposta e le attività didattiche;
  • criteri e metodi di valutazione;
  • forme di integrazione tra il contesto scolastico ed extra-scolastico.

A partire da quest’anno, con il DM 182/2020, sarà disponibile un nuovo modello unico nazionale di PEI, che verrà introdotto gradualmente all’interno del sistema scuola. Il nuovo PEI sarà un documento che, seguendo l’esempio della versione attuale e un approccio bio-psico-sociale, attuerà tutti gli obiettivi educativi e didattici al fine di garantire un ambiente di apprendimento inclusivo per contribuire a oltrepassare l’idea di disabilità come malattia.

Come già accennato, il PEI si rivolge a studenti che presentano una condizione di disabilità accertata e, nello specifico, è un modello che può essere redatto per alunni che appartengono alla:

  • scuola dell’infanzia;
  • scuola primaria;
  • scuola secondaria di I grado;
  • scuola secondaria di II grado.

Con l’introduzione del nuovo modello PEI, a partire da quest’anno, saranno presto introdotte le nuove linee guida che si rivolgeranno agli alunni dei quattro gradi di istruzione scolastica sopra citati. È possibile, infatti, redigere il documento del PEI proprio a partire dalla scuola dell’infanzia e aggiornarlo ogni nuovo anno scolastico e ogni volta che ci saranno nuove e sopravvenute condizioni di funzionamento della persona che modificheranno il percorso scolastico dell’alunno.

Il PEI, però, è rivolto anche all’insieme di persone che partecipano all’organizzazione della presenza a scuola dell’alunno, dando loro indicazione delle attività da svolgere. Tra queste risorse professionali troviamo, insieme ai docenti della classe, anche:

  • l’insegnante di sostegno;
  • l’assistente all’autonomia e/o alla comunicazione;
  • i collaboratori scolastici impegnati nell’assistenza igienica di base.

TFA sostegno

Come abbiamo sottolineato in precedenza, per intraprendere la carriera di Insegnante bisogna ottenere l’abilitazione. Imprescindibile, secondo il Decreto Ministeriale n. 249 del 10 settembre 2010, il possesso del titolo ottenuto a seguito della frequentazione del TFA. Chiariamo insieme:

  • Che cos’è il TFA? L’acronimo sta per Tirocinio Formativo Attivo e consiste in un periodo di formazione sia teorica che pratica;
  • A cosa serve il TFA? Ha lo scopo di introdurre il personale docente alla professione. È finalizzato all’ottenimento della qualifica professionale: al termine del corso, infatti, i partecipanti svolgono l’esame di abilitazione all’insegnamento.

Come dicevamo, anche nel caso degli Insegnanti di sostegno è necessario essere in possesso dell’abilitazione ottenuta tramite il TFA sostegno. Questi percorsi formativi vengono organizzati da Università accreditate e riconosciute dal Ministero dell’Istruzione sparse su tutto il territorio nazionale e prevedono una selezione. Per poter partecipare ai corsi per il TFA sostegno, infatti, bisogna possedere i seguenti requisiti:

  • Per la scuola di infanzia e primaria: laurea in Scienze della formazione primaria, oppure diploma magistrale o diploma sperimentale a indirizzo psicopedagogico con valore di abilitazione e diploma sperimentale a indirizzo linguistico, conseguiti presso gli istituti magistrali oppure un titolo analogo conseguito all’estero e riconosciuto in Italia.
  • Per la scuola secondaria di primo e secondo grado: abilitazione specifica sulla classe di concorso, oppure titolo di laurea e 24 CFU (Crediti Formativi Universitari) in discipline antropologiche, psicologiche, pedagogiche ed in metodologie e tecnologie didattiche.

PAI

Il Piano Annuale per l’Inclusività (PAI) è un documento redatto dalle scuole come strumento per progettare un’offerta formativa e una didattica inclusiva per tutti gli studenti con bisogni educativi speciali. Si tratta infatti di un importante testo che va a integrare quello più articolato del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) di ogni istituzione scolastica.

Il PAI serve principalmente per garantire:

  • l’unitarietà dell’approccio didattico-educativo per tutta la comunità scolastica;
  • la continuità e l’efficacia dell’azione didattico-educativa anche nel caso di una variazione del personale scolastico (docenti e dirigente) responsabile dell’inclusione;
  • la riflessione sui sistemi educativi e sulle metodologie didattiche impiegate ogni anno dalle singole scuole.

Nel corso degli anni il PAI è stato definito da diverse note e circolari trasmesse sia a livello nazionale che regionale. Tuttavia, come normativa di riferimento per la definizione del PAI troviamo i seguenti documenti:

  • direttiva del 27 dicembre 2012;
  • circolare ministeriale del 6 marzo 2013.

Entrambi questi testi definiscono le linee guida di un piano educativo di tipo inclusivo e i profili ai quali è rivolto. Se, infatti, nella direttiva e nella circolare ministeriale vengono chiarite e descritte le tipologie di alunni coinvolti nel processo di inclusione e gli strumenti operativi da utilizzare, dalla nota prot. 1551 del 27 giugno 2013 si apprende meglio cos’è per la scuola il PAI, che appare come lo “strumento per una progettazione della propria offerta formativa in senso inclusivo, […] lo sfondo ed il fondamento sul quale sviluppare una didattica attenta ai bisogni di ciascuno nel realizzare gli obiettivi comuni”.

Tutto questo è possibile grazie alle fasi di rilevazione, monitoraggio e valutazione del grado di inclusività della scuola che vengono attuate con la redazione del testo PAI. Inoltre, il Piano Annuale per l’Inclusione non serve solo per migliorare il livello di inclusione a scuola, ma anche per proporre e perseguire nuovi obiettivi di inclusività (che saranno attuati nell’anno scolastico successivo) nei seguenti ambiti:

  • insegnamento curriculare;
  • gestione delle classi;
  • relazioni tra insegnanti, alunni e famiglie;
  • organizzazione di tempi e spazi scolastici.

Il PAI si rivolge agli alunni chiamati BES, cioè con bisogni educativi speciali. Appartengono a questa categoria tutti gli studenti che rientrano in una delle seguenti situazioni:

  • svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale (come ad esempio gli alunni NAI);
  • disagio comportamentale e/o relazionale;
  • disturbi specifici dell’apprendimento (DSA);
  • disturbi evolutivi specifici.

Per questi alunni vengono attuate strategie didattiche e piani di studio personalizzati o individuali (di cui si tiene conto nel PAI) come il PDP – Piano Didattico Personalizzato o il PEI – Piano Educativo Individualizzato.

Il documento del PAI viene redatto entro il termine dell’anno scolastico (fine giugno) dal GLI – Gruppo di Lavoro per l’Inclusione di ogni singolo Istituto, formato da:

  • dirigente scolastico;
  • insegnanti di sostegno;
  • una rappresentanza di genitori e altri docenti curriculari;
  • assistenti all’autonomia e alla comunicazione;
  • rappresentanti del personale ATA e delle ASL locali competenti.

L’intera comunità scolastica, dunque, è coinvolta nella valutazione dei metodi educativi e degli interventi didattici e nella loro eventuale modifica.

Ogni anno il Ministero dell’Istruzione diffonde un modello e le linee guida aggiornate per la redazione del PAI. Generalmente, però, la compilazione di questo documento da parte di tutti i soggetti coinvolti sopra elencati prevede una prima e una seconda parte. Nella prima parte vengono riportati i dati relativi all’analisi dei punti di forza e di criticità rilevati nell’anno in corso, mentre la seconda parte del documento contiene la proposta di nuovi obiettivi di inclusività e suggerimenti operativi di miglioramento da attuare nell’anno scolastico successivo.

 

GPS

Le GPS sono le Graduatorie Provinciali per le Supplenze e sono una tipologia di graduatoria utilizzata per assegnare supplenze annuali fino al 30 agosto o fino al termine delle attività didattiche. Si tratta di graduatorie che si suddividono generalmente in due fasce:

  • I fascia: per i docenti abilitati;
  • II fascia: per i docenti non abilitati.

Inoltre, gli aspiranti docenti possono iscriversi in GPS che si suddividono anche nei diversi gradi e ordini scolastici e quindi in:

  • GPS per la scuola dell’infanzia e primaria;
  • GPS per la scuola secondaria di primo e secondo grado;
  • GPS per il sostegno.

Vediamole nel dettaglio, spiegando per ciascuna la prima e la seconda fascia.

Le GPS per la scuola dell’infanzia e primaria sono di:

  • I fascia: con docenti in possesso dell’abilitazione, cioè di un diploma di laurea magistrale in Scienze della formazione primaria;
  • II fascia: con docenti ancora iscritti al terzo, quarto o quinto anno del corso di laurea in Scienze della formazione primaria e che hanno maturato un certo numero di crediti formativi universitari, rispettivamente almeno 150, 200 e 250 cfu.

Le GPS per la scuola secondaria di primo e secondo grado, invece, si dividono in:

  • I fascia: con docenti abilitati;
  • II fascia: docenti in possesso del titolo di studio relativo a una determinata classe di concorso e dei 24 cfu per l’insegnamento o docenti in possesso del titolo di accesso e abilitati in un’altra classe di concorso o grado o docenti inseriti nelle GI della stessa classe di concorso.

Le GPS per il sostegno per la scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado si dividono in:

  • I fascia: docenti con specializzazione sostegno;
  • II fascia: docenti senza specializzazione sostegno ma che hanno maturato entro l’anno 2019/2020 tre annualità di insegnamento su posto di sostegno e che presentano abilitazione o titolo di accesso alla seconda fascia.

GI

Le GI sono le Graduatorie d’Istituto e a differenza delle GPS vengono utilizzate per assegnare supplenze brevi a causa, ad esempio, di malattia o maternità del docente titolare della cattedra. L’aspirante docente che si iscrive alle GI ha la possibilità di indicare un massimo di 20 scuole nella stessa provincia indicata per le GPS. Fino all’estate del 2020 le GI si suddividevano in tre fasce, ma ad oggi ne esistono solo due:

  • I fascia: docenti abilitati presenti anche nelle GaE cioè le Graduatorie a Esaurimento;
  • II fascia: docenti non abilitati ma presenti nella seconda fascia delle GPS e in possesso dei requisiti per il titolo di supplente e per la partecipazione ai concorsi.

GaE

Le GaE sono le Graduatorie a Esaurimento chiamate inizialmente graduatorie permanenti e ridefinite dall’art. 1, comma 605, lettera c), della L. 27 dicembre 2006, n. 296. Le GaE sono utilizzate per assegnare supplenze annuali e temporanee fino al termine delle attività didattiche, di cui al comma 4, lettere a) e b), prima di ricorrere a GPS e a GI. Alle GaE, strutturate su base provinciale e aggiornate per gli iscritti ogni tre anni, non possono accedere dal 2008 nuovi aspiranti docenti proprio perché si tratta di graduatorie destinate a esaurirsi. Questo tipo di graduatoria, nella quale sono inseriti i docenti abilitati all’insegnamento, rappresenta la possibilità, insieme alle graduatorie di merito, di ottenere un’assunzione a tempo indeterminato con immissione al ruolo. Oltre alle tipologie di graduatorie sopra elencate, infatti, esiste quella delle graduatorie di merito, ovvero graduatorie nelle quali sono inseriti tutti i docenti vincitori di concorso pubblico a cattedra.

 

MAD

MAD è l’acronimo che si usa per indicare la cosiddetta Messa a Disposizione, una procedura che permette di inviare una domanda per dare la propria disponibilità a svolgere una supplenza all’interno degli istituti scolastici. La MAD si presenta infatti come una valida alternativa per lavorare a scuola, soprattutto per coloro che non sono inseriti nelle graduatorie di II e III fascia e non possono accedere ai concorsi. Si tratta di un documento, inviato in quanto candidatura spontanea, che può essere compilato sia per ricoprire il ruolo di personale docente (ordinario o di sostegno) che quello di tecnico-amministrativo o di collaboratore scolastico. Le MAD si possono presentare per più scuole (di diversi ordini e gradi e solitamente di una sola provincia) e spetta al Dirigente Scolastico utilizzarle quando si esauriscono le graduatorie di istituto e sussiste la richiesta urgente di personale. Con la domanda di Messa a Disposizione è possibile guadagnare punteggio (da 1 a 12 punti a seconda della durata dell’incarico) per la propria classe di concorso, favorendo anche l’inserimento dei candidati all’interno delle graduatorie scolastiche.

MAD: come presentare la domanda

Vediamo ora come presentare la MAD. A seconda della scuola prescelta, la domanda di Messa a Disposizione può essere inviata tramite la compilazione di un modulo apposito (in word o pdf) inviato secondo diverse modalità, che sono:

  • via posta tradizionale o raccomandata;
  • via posta elettronica ordinaria (PEO) o certificata (PEC);
  • consegna a mano;
  • via fax.

Tuttavia, oggi tra le modalità più diffuse troviamo l’invio tramite la compilazione di un modulo online direttamente sul sito dell’istituzione scolastica prescelta, laddove disponibile. Durante la compilazione all’utente che presenta la MAD saranno richieste le seguenti informazioni:

  • dati di tipo anagrafico;
  • ordine scolastico per il quale si fa domanda;
  • titolo di studio posseduto;
  • classe di concorso e materia di insegnamento (nel caso di aspiranti docenti);
  • precedenti esperienze professionali o di insegnamento;
  • invio di documenti di riconoscimento e curriculum vitae.

La scelta e il recupero delle informazioni relative alla scuola (tra cui indirizzo e-mail, codice meccanografico, ecc.) presso la quale inoltrare la propria candidatura, può avvenire tramite la consultazione di siti web come Scuola in Chiaro. Per quanto riguarda invece il periodo entro il quale inviare la MAD, solitamente gli aspiranti docenti e ATA presentano domanda prima dell’inizio del nuovo anno scolastico o in determinati periodi che potrebbero favorire l’inserimento nelle scuole a causa, ad esempio, di un esaurimento di graduatorie e presenza ancora di posti vacanti. Tuttavia, è sempre possibile compilare e inoltrare MAD e ad oggi esistono diversi siti che si occupano di programmazione e invio della domanda di Messa a disposizione.

 

l collaboratore scolastico, cioè quella figura professionale un tempo chiamata bidello, non è dunque la sola occupazione cui dobbiamo pensare quando facciamo riferimento al personale ATA. Non tutti i profili prevedono infatti come requisito minimo la licenzia media, e molti laureati e diplomati scelgono di intraprendere questa carriera per lavorare in ambito scolastico, attratti dalla possibilità di uno stipendio fisso.

Ma cosa significa lavorare come personale ATA? Quali mansioni sono affidate a questa figura professionale? Quali sono i requisiti e come si fa a diventare personale ATA?

ATA, personale

Dunque: chi fa parte del personale ATA? Con l’espressione “personale ATA” ci si riferisce a un insieme di figure professionali di tipo amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) attive in strutture scolastiche e educative, statali e private.

Le mansioni affidate a questo profilo non sono, come un tempo, quelle di pulizia e mantenimento degli spazi scolastici. Tali funzioni sono oggi affidate a ditte esterne, pertanto, in base al profilo professionale, al personale ATA vengono affidate mansioni amministrative, contabili, gestionali, strumentali, operative e di sorveglianza collegate all’attività delle istituzioni scolastiche, tra cui l’accoglienza e il controllo dell’edificio e degli studenti e l’assistenza ai docenti e al dirigente scolastico su aspetti organizzativi e tecnici.

Tra i lavoratori compresi nel personale ATA figurano:

  • l’Addetto alle aziende agrarie;
  • l’Assistente amministrativo;
  • l’Assistente tecnico;
  • il Collaboratore scolastico;
  • il Cuoco;
  • il Guardarobiere;
  • l’Infermiere.

Vediamo nel dettaglio le suddette professioni suddivise per le 4 aree di inquadramento, le destinazioni d’impiego e i requisiti richiesti per accedere a ciascuno dei profili.

Personale ATA – AREA A

Profilo: Collaboratore scolastico

  • luogo di lavoro: in tutte le scuole;
  • requisiti di accesso: diploma di qualifica triennale rilasciato da un istituto professionale, diploma di Maestro d’arte, diploma di scuola magistrale per l’Infanzia, qualsiasi diploma di maturità, attestati e/o diplomi di qualifica professionale, entrambi di durata triennale, rilasciati o riconosciuti dalle Regioni.

Personale ATA – AREA AS

Profilo: Collaboratore scolastico addetto all’azienda agraria 

  • luogo di lavoro: istituti agrari;
  • requisiti di accesso: diploma di qualifica professionale di Operatore agrituristico, Operatore agro industriale o Operatore agro ambientale.

Personale ATA – AREA B (Assistente amministrativo)

Profilo: Assistente Tecnico

  • luogo di lavoro: scuole secondarie di secondo grado;
  • requisiti di accesso: diploma di maturità che dia accesso a una o più aree di laboratorio.

Profilo: Cuoco

  • luogo di lavoro: convitti e educandati;
  • requisiti di accesso: diploma di qualifica professionale di Operatore dei servizi di ristorazione.

Profilo: Infermiere

  • luogo di lavoro: convitti e educandati;
  • requisiti di accesso: laurea in Scienze infermieristiche o altro titolo ritenuto valido per l’esercizio della professione di Infermiere.

Profilo: Guardarobiere 

  • luogo di lavoro: convitti e educandati;
  • requisiti di accesso: diploma di qualifica professionale di Operatore della moda.

Personale ATA – AREA D

Profilo: Direttore dei servizi generali e amministrativi (DSGA)

  • luogo di lavoro: tutte le scuole;
  • requisiti d’accesso: laurea del vecchio ordinamento, specialistica/magistrale in Giurisprudenza, Scienze politiche sociali e amministrative, Economia e commercio o titoli equipollenti.

Diventare personale ATA

Ma qual è l’iter da seguire per diventare personale ATA? Da questo punto di vista, bisogna innanzitutto sapere che l’inserimento nelle graduatorie ATA avviene mediante appositi concorsi pubblici per titoli e/o esami che vengono pubblicati periodicamente, con cadenza differente, a seconda della graduatoria di riferimento.

Le graduatorie del personale ATA si dividono in:

  • graduatorie di circolo e d’istituto: per le assunzioni a tempo determinato e per le supplenze;
  • graduatorie ed elenchi provinciali: per assunzioni a tempo indeterminato e assegnazioni di supplenze annuali e temporanee.

Le graduatorie di circolo e d’istituto sono divise in 3 fasce, che determinano l’ordine secondo il quale sono convocati i candidati:

  • prima fascia: comprende i candidati inseriti nelle graduatorie provinciali permanenti;
  • seconda fascia: include i candidati inseriti nelle graduatorie e negli elenchi provinciali a esaurimento di Collaboratore scolastico, Assistente amministrativo, Assistente Ttcnico, Cuoco, Infermiere, Guardarobiere, Addetto alle aziende agricole;
  • terza Fascia: le graduatorie di questa fascia vengono utilizzate per supplenze temporanee e per ogni altra necessità e vengono aggiornate dal Ministero dell’Istruzione con cadenza triennale.

Le graduatorie provinciali ATA, come detto, vengono utilizzate per le assunzioni a tempo indeterminato e il conferimento di supplenze annuali e temporanee.

Sono suddivise in 2 tipologie, così articolate:

  • graduatorie provinciali permanenti, alle quali concorrono i candidati che possiedono i titoli per accedere ai profili professionali delle Aree A e B del personale ATA e che hanno già prestato servizio per 24 mesi, anche non continuativi, presso le scuole statali, nel profilo professionale per il quale intendono concorrere;
  • graduatorie ed elenchi provinciali a esaurimento, che stabiliscono l’affidamento di supplenze annuali e temporanee per Collaboratori Scolastici, Assistenti Amministrativi, Assistenti Tecnici, Cuochi, Infermieri, Guardarobieri e Addetti alle aziende agrarie.

Infine, per quanto riguarda i Direttori dei servizi generali ed amministrativi sono previsti appositi bandi ordinari per assunzioni a tempo indeterminato o per l’affidamento d’incarichi di lavoro temporanei.

Quanto guadagna il personale ATA

Infine, un breve sguardo alle retribuzioni e allo stipendio percepito del personale ATA. Il personale ATA percepisce in media tra i 1200 e i 1900 euro lordi al mese, stipendio che varia in base al tipo di profilo ricoperto, dal minimo riconosciuto ai Collaboratori scolastici al massimo di retribuzione previsto per i DSGA.

NAI, alunni

Prima di illustrare come avviene l’integrazione degli studenti stranieri nella scuola italiana, facciamo chiarezza su chi sono gli alunni NAI. Con questo acronimo ci si riferisce a studenti NeoArrivati in Italia che, provenienti dall’estero, decidono di continuare la loro formazione scolastica nel nostro Paese. Si tratta infatti di alunni con cittadinanza straniera che ancora non parlano italiano o conoscono poco la nostra lingua. Tuttavia, spesso rientrano in questa categoria anche giovani inseriti nel nostro contesto scolastico da un paio di anni ma che presentano ancora esigenze didattiche specifiche a causa di difficoltà di tipo linguistico.

Quali sono le modalità di inserimento degli alunni NAI nella scuola

Vediamo ora quali sono le modalità di inserimento degli alunni NAI all’interno del sistema scolastico italiano. Innanzitutto, bisogna tener conto dell’età degli studenti che arrivano nel nostro Paese, ovvero se sono (secondo l’ordinamento della scuola italiana):

  • studenti ancora in età di obbligo scolastico;
  • studenti non più soggetti all’obbligo scolastico.

Come riportato dalle linee guida ministeriali, infatti, l’iter di inserimento dell’alunno NAI cambia a seconda delle categorie sopra citate a cui appartiene e, di conseguenza, anche dell’ordine e grado della scuola nella quale verrà iscritto. Se lo studente è ancora in età di obbligo scolastico verrà inserito in una classe che corrisponde alla propria età anagrafica. Pertanto, esiste la possibilità che il collegio docenti decida diversamente tenendo conto dei seguenti fattori:

  • l’ordinamento degli studi del Paese di provenienza (a seconda del quale l’alunno NAI potrebbe essere inserito in una classe immediatamente inferiore o superiore rispetto a quella relativa all’età anagrafica);
  • il corso di studi seguito nel Paese di provenienza e il titolo di studio posseduto dall’alunno;
  • la verifica della preparazione e delle competenze possedute.

Se invece l’alunno NAI appartiene alla seconda categoria sopra elencata, ovvero è uno studente non più soggetto all’obbligo scolastico, secondo la normativa italiana e deve iscriversi presso un istituto di istruzione secondaria superiore, l’iter di inserimento (soprattutto nel caso di cittadini comunitari) consiste:

  • nella richiesta dell’equipollenza del diploma del primo ciclo di istruzione;
  • in eventuali prove integrative da svolgersi a seguito della valutazione della richiesta da parte del Consiglio di classe.

Inoltre, l’inserimento scolastico dell’alunno NAI richiede alcuni documenti da presentare alla scuola prescelta, che sono:

  • certificato degli anni di scolarità o del titolo di studio conseguito nel Paese di provenienza (firmato dal Dirigente scolastico della scuola frequentata e approvato dall’Autorità diplomatica o consolare italiana in loco);
  • dichiarazione di valore e traduzione in lingua italiana, certificata e giurata, del titolo di studio o del certificato degli anni di scolarità.

Una volta consegnata la documentazione richiesta, la scuola si adopererà per mettere in atto un protocollo di accoglienza dato dall’omonimo documento che, redatto dal Consiglio di classe, permetterà non solo la facilitazione dell’ingresso degli alunni neoarrivati a scuola ma anche di:

  • definire pratiche e strategie di accoglienza condivise all’interno della scuola;
  • offrire sostegno agli alunni neoarrivati per facilitare il periodo di adattamento al nuovo contesto, incoraggiando un clima di piena integrazione;
  • favorire la comunicazione e la collaborazione tra la scuola e il territorio sulle tematiche riguardanti l’educazione interculturale.

Quali sono le metodologie didattiche rivolte agli alunni NAI

Per venire incontro alle esigenze degli studenti NAI, gli insegnanti e la scuola mettono a disposizione misure compensative e interventi educativi spesso simili a quelli dedicati agli studenti BES, ovvero con Bisogni Educativi Speciali. Infatti, la situazione di svantaggio linguistico che presentano questi alunni, induce gli insegnanti alla stesura di un PDP – Piano Didattico Personalizzato con lo scopo di monitorare il loro percorso scolastico.

Inizialmente, gli insegnanti si occupano dell’acquisizione da parte dell’alunno NAI della lingua per comunicare. Infatti, lo studente è seguito nella fase di apprendimento linguistico e, in seguito, anche in quello delle discipline comuni. Tra gli strumenti utili all’integrazione e al percorso di studi dell’alunno NAI compaiono attività laboratoriali del doposcuola, mentre tra le metodologie didattiche più utilizzate in classe (e applicabili a tutte le materie scolastiche) troviamo:

  • utilizzo di testi facilitati, schemi, dispense e tabelle;
  • permesso all’utilizzo del vocabolario;
  • interrogazioni programmate;
  • prove e verifiche differenziate (tenendo conto più del contenuto che della forma e prediligendo le prove a completamento, precedute da un esercizio esempio).

Inoltre, durante le prove di verifica l’insegnante fornisce allo studente NAI tempi più lunghi per svolgere il compito e adotta accorgimenti quali evitare la lettura ad alta voce o la scrittura sotto dettatura in classe. Durante le lezioni frontali, invece, utilizza un linguaggio semplice e incoraggia le attività di gruppo al fine di favorire una didattica inclusiva e la socializzazione in classe. Spesso poi lo studente NAI è affiancato da un Tutor e/o dalla figura di un Mediatore interculturale.

Ad oggi sono molti i corsi, online e in presenza, che si occupano della formazione dei docenti in materia di integrazione e inclusione di questa tipologia di alunni all’interno della classe. Tra questi corsi ritroviamo anche i master e le certificazioni per la didattica dell’italiano a stranieri.

Mediatore interculturale

Il Mediatore interculturale è un professionista che si occupa del percorso di integrazione di cittadini immigrati all’interno di un Paese, favorendo la comunicazione tra individui di origini e lingue diverse. Il Mediatore interculturale, infatti, lavora alla diffusione di una cultura dell’accoglienza in grado di facilitare l’inserimento dell’immigrato dal punto di vista sociale ed economico. Ma capiamo meglio chi è il Mediatore interculturale.

Si tratta di un vero e proprio operatore sociale con la missione di favorire la rimozione di barriere linguistiche e culturali. Presentando solide conoscenze della legislazione, del contesto locale e dei servizi del territorio in cui opera, il Mediatore interculturale è una figura in grado di interpretare e comprendere i bisogni e le difficoltà dell’immigrato e aiutarlo a rendersi indipendente e abile nel gestire autonomamente la propria vita nel Paese di accoglienza.

Inoltre, il Mediatore interculturale è una persona dotata di:

  • capacità di problem solving;
  • spirito pratico;
  • inclinazione alle relazioni personali;
  • predisposizione all’ascolto;
  • senso di responsabilità.

Cosa fa il Mediatore interculturale

I compiti e le funzioni di questo professionista sono molti, vediamo allora nello specifico cosa fa il Mediatore interculturale. Tra le principali mansioni di questa figura professionale troviamo:

  • tradurre documenti;
  • informare sui diritti e doveri vigenti in un Paese;
  • informare l’utente straniero dei servizi di un Paese;
  • informare gli operatori di un servizio su abitudini e comportamenti che può assumere l’utente straniero;
  • offrire consulenza alle associazioni che si occupano di minoranze e popolazioni immigrate;
  • lavorare con enti e istituzioni pubbliche alla programmazione di interventi a favore di minoranze etniche;
  • promuovere e agevolare l’incontro tra bambini di culture diverse all’interno delle scuole.

Inoltre, il Mediatore interculturale potrà ritrovarsi a lavorare in carcere o in tribunale per supportare l’attività di avvocati e spiegare all’immigrato come comportarsi nel caso si ritrovasse coinvolto in una vicenda di tipo legale.

Quanto guadagna un Mediatore interculturale

Il Mediatore interculturale opera solitamente presso luoghi di lavoro che richiedono competenze in mediazione linguistico-culturale come:

  • centri di accoglienza;
  • scuole;
  • associazioni non profit;
  • organizzazioni pubbliche e private;
  • aziende private;
  • tribunali e carceri;
  • consultori e ospedali.

Nelle strutture sopra citate, può lavorare sia come dipendente sia come consulente esterno.

Ma quanto guadagna un Mediatore interculturale? La retribuzione di questo professionista cambia a seconda della modalità contrattuale e del settore in cui opera. Infatti, il lavoro del Mediatore interculturale può avere una tariffa oraria, giornaliera o mensile; lo stipendio annuo lordo può oscillare tra i 14.000 e i 20.000 euro.

Come diventare Mediatore interculturale

Vediamo adesso come diventare Mediatore interculturale. Sicuramente il percorso più indicato è il conseguimento della laurea in Mediazione culturale o in Mediazione linguistica e interculturale, tuttavia possono accedere alla carriera di Mediatore interculturale anche coloro in possesso di un titolo di studio in:

  • Lingue;
  • Sociologia;
  • Scienze dell’educazione;
  • Psicologia.

In ogni caso, un Mediatore interculturale dovrà essere una persona esperta in tecniche di comunicazione e mediazione con conoscenze linguistiche, sociologiche, economiche e giuridiche.

Per diventare Mediatore interculturale è possibile, inoltre, partecipare a un corso di formazione professionale di tipo regionale o organizzato da enti privati, che ne rilasci la qualifica. Una volta ottenuto il titolo professionale di Mediatore interculturale o dopo aver maturato esperienza nel campo, è possibile iscriversi a master o a ulteriori corsi di specializzazioni.

PDP (Piano Didattico Personalizzato)

Come previsto dalla Legge 53/2003, tutti gli studenti con difficoltà nell’apprendimento, anche di tipo temporanea, hanno diritto a una didattica personalizzata che vede l’adozione del PDP. Ma di cosa si tratta? Il PDP, Piano Didattico Personalizzato, è un documento che definisce la programmazione, gli strumenti e gli interventi educativi da mettere in atto nei confronti di alunni che presentano delle esigenze didattiche specifiche. Il PDP garantisce a questi studenti un supporto indispensabile affinché possano partecipare alla vita scolastica con le stesse possibilità degli altri compagni di classe.

Riconosciuto dalla Circolare Ministeriale del 6 Marzo 2013, il PDP diviene così un vero e proprio strumento per:

  • favorire l’inclusione all’interno della scuola;
  • garantire equità in classe;
  • incoraggiare il successo e l’autonomia scolastica.

Il PDP è un documento che guida anche i docenti nella progettazione didattica, può essere redatto a partire dalla scuola primaria e si modifica in ogni ordine e grado scolastico.

A chi si rivolge il PDP (Piano Didattico Personalizzato)

Il PDP si rivolge ad alunni detti BES, cioè con Bisogni Educativi Speciali. Ma chi sono coloro che rientrano in questa categoria? Oltre ad alunni con una disabilità certificata (per i quali però verrà redatto il documento di programmazione detto PEI – Piano Educativo Individualizzato), appartengono alla categoria BES anche:

  • alunni con uno svantaggio di tipo linguistico, culturale e socio-economico, ma anche con disagio comportamentale/relazionale;
  • alunni con disturbi evolutivi come: ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, cioè con disturbo da deficit dell’attenzione e di iperattività), deficit del linguaggio, deficit delle abilità non verbali, deficit della coordinazione motoria, disturbo dello spettro autistico;
  • alunni DSA, cioè con Disturbi Specifici dell’Apprendimento, quali dislessia, disgrafia, disortografia e discalculia.

L’esigenza di redigere un PDP per le prime due categorie elencate è possibile qualora la scuola lo ritenesse necessario. Obbligatoria, invece, è la stesura del documento per gli alunni che presentano una certificazione DSA. I disturbi di questi alunni, detti specifici dell’apprendimento, sono stati riconosciuti in quanto tali dalla Legge 170 dell’8 ottobre 2010. In questo caso, quella dei DSA è una diagnosi che si formula con certezza dopo la fine della seconda classe della scuola primaria, periodo in cui è avvenuto l’insegnamento della letto-scrittura e del calcolo. Spesso, le loro difficoltà verso queste funzioni sono condivise, anche se per cause differenti, dalle altre due categorie BES.

Come si prepara il PDP (Piano Didattico Personalizzato)

Il PDP viene compilato dai docenti del consiglio di classe a seguito di una fase di osservazione che non supera il primo trimestre dell’anno, periodo entro il quale il documento di programmazione deve essere pronto. La stesura del PDP può richiedere anche il contributo esterno di esperti, mentre fondamentale è la partecipazione:

  • della famiglia dell’alunno (che consegna alla scuola i certificati, le diagnosi e le relazioni cliniche, di cui il PDP deve tenere conto);
  • dell’alunno (solo nei casi che lo richiedono e di solito si tratta di studenti della scuola secondaria di secondo grado);
  • del Dirigente Scolastico (che firmerà il documento del PDP finale).

Il PDP viene elaborato seguendo le Linee Guida, pubblicate a seguito del Decreto Ministeriale del 12 luglio 2011 e, come già anticipato, è obbligatorio per gli alunni DSA certificati. Per quanto riguarda le altre categorie BES che non presentano certificazione clinica, il PDP verrà elaborato solo se richiesto dal consiglio di classe che, in questo caso, deve spiegare con considerazioni di tipo pedagogico-didattico la scelta di attivare il percorso e verbalizzare le proprie motivazioni.

Ma vediamo ora qual è la struttura di un Piano Didattico Personalizzato che i docenti andranno a compilare tenendo conto di ciascuna disciplina scolastica.

Gli elementi che troviamo all’interno del PDP sono:

  • dati anagrafici dell’alunno;
  • tipologia del disturbo;
  • attività didattiche individualizzate;
  • attività didattiche personalizzate;
  • strumenti compensativi (come programmi di video scrittura, sintesi vocale, calcolatrice e registratore);
  • misure dispensative (come interrogazioni programmate, verifiche pianificate, ridotte o svolte con tempi più lunghi, uso del vocabolario);
  • forme di verifica e valutazione personalizzate.

A seguito della sua compilazione, il PDP è un documento oggetto di continuo monitoraggio da parte dei docenti del consiglio di classe, che possono quindi modificarlo in qualsiasi momento e qualora se ne presentasse la necessità. Inoltre, può capitare che gli insegnanti compilino un PDP anche nel corso dell’anno, soprattutto se l’alunno e la sua famiglia presentano lo stato di BES dopo il primo trimestre scolastico.

Maggiori informazioni sui modelli di PDP e sugli alunni BES sono disponibili sulla pagina dedicata sul sito del MIUR.

INVALSI

Le prove Invalsi nascono nel 2004 in un contesto di grande dibattito intorno alla scuola e vengono introdotte per la prima volta con la Legge n.176 del 25 ottobre 2007. Il loro nome deriva dall’Invalsi, cioè l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, ente che nel 1999 ha preso il posto del CEDE (Centro Europeo dell’Educazione). Soggetto alla vigilanza del Ministero dell’Istruzione, tra i compiti di Invalsi, troviamo:

  • studio delle cause di insuccesso e dispersione scolastica con riferimento al contesto sociale e al tipo di offerta formativa;
  • supporto all’amministrazione scolastica, alle Regioni, agli enti territoriali, e alle singole istituzioni scolastiche e formative per la realizzazione di iniziative di monitoraggio, valutazione e autovalutazione;
  • attività di formazione dei docenti e del dirigente scolastico, connessa ai processi di valutazione e di autovalutazione delle istituzioni scolastiche;
  • assicurare la partecipazione italiana a progetti di ricerca europea e internazionale in campo valutativo, rappresentando il Paese negli organismi competenti;
  • verifiche periodiche e sistematiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità dell’offerta formativa delle istituzioni di istruzione e di formazione professionale, con gestione del Sistema Nazionale di Valutazione (SNV).

Ma in cosa consistono e, soprattutto, cosa sono queste verifiche periodiche, dette prove Invalsi? Si tratta di prove oggettive ed esterne, uguali per tutti gli studenti e adeguate all’età dei ragazzi esaminati. Sono veri e propri esami che nascono con lo scopo di:

  • misurare la qualità di apprendimento degli alunni;
  • valutare gli esiti di apprendimento di alcune competenze chiave;
  • verificare e stimolare il necessario rinnovamento delle istituzioni scolastiche.

Le prove Invalsi hanno dunque una funzione diagnostica e formativa e hanno luogo durante ogni anno scolastico. Sono ideate e preparate da un gruppo di docenti e dirigenti scolastici selezionati e formati dall’Invalsi, affiancati dai ricercatori dell’Istituto e da università nazionali e internazionali.

test Invalsi sono prove che si basano sull’importanza dello sviluppo del pensiero critico e di un apprendimento di tipo produttivo da parte degli studenti.

A chi si rivolgono le prove Invalsi

Le prove Invalsi interessano studenti provenienti da scuole di ordine e grado diversi. In particolare, coloro che sono soggetti ogni anno alla valutazione Invalsi sono:

  • alunni della scuola primaria (II e V classe);
  • alunni della scuola secondaria di primo grado (III classe);
  • alunni della scuola secondaria di secondo grado (II e V classe).

Le prove Invalsi si rivolgono inoltre indirettamente anche agli insegnanti. Sebbene esse non possano dire come insegnare, indirizzano i docenti verso le problematiche dei loro studenti e li guidano quindi nel loro metodo di insegnamento e nella risoluzione dei problemi di apprendimento dei singoli alunni. L’insegnante può, infatti, tramite l’esito della prova Invalsi, interpretare il risultato ma soprattutto il contesto dei successi e degli insuccessi dei test dei propri studenti. In questo modo, c’è possibilità di riformulare l’azione didattica, attuando misure di recupero e rinforzo.

Inoltre, gli insegnanti hanno il compito di preparare i propri alunni alle prove e, oltre ai numerosi siti online che offrono prove per esercitarsi, molti sono i siti che presentano webinar sull’argomento.

Come si svolgono le prove Invalsi

Vediamo ora come funzionano le prove Invalsi e qual è il loro svolgimento.

Come già anticipato, le prove Invalsi hanno come scopo quello di riportare delle rilevazioni nazionali sugli apprendimenti degli alunni. Questa verifica avviene – seguendo le Indicazioni Nazionali per il curricolo, le Linee guida, i Regolamenti e il Quadro comune di riferimento Europeo per le lingue – nelle seguenti discipline:

  • italiano (comprensione di testi scritti di natura letteraria, saggistica o tratti dalla vita di tutti i giorni);
  • matematica (risoluzioni di problemi, utilizzo delle capacità logiche e interpretazioni di grafici);
  • inglese (comprensione di testi scritti e da ascoltare – reading e listening).

La seconda classe della scuola primaria affronta solo le prove nelle materie di italiano e matematica, tutte le altre classi (V della primaria, III della secondaria di primo grado e II e V della secondaria di secondo grado), invece, affrontano le prove anche nella disciplina di inglese.

Le prove Invalsi sono caratterizzate da domande a risposta chiusa e aperta da svolgersi in:

  • 45 minuti per le prove di matematica;
  • dai 75 ai 95 minuti per le prove di italiano;
  • dai 35 ai 60 minuti per le prove di reading e dai 15 ai 30 minuti per il listening di inglese.

Per i ragazzi BES (Bisogni Educativi Speciali) e DSA (Disturbi Specifici dell’Apprendimento) le prove si svolgono con l’ausilio di misure compensative quali tempo aggiuntivo, dizionari e/o calcolatrici.

Dal 2018, ad eccezione della scuola primaria, le prove sono somministrate tramite computer (in modalità CBT – Computer Based Test), favorendo l’analisi statistica dei dati degli esami e proponendo agli alunni prove diverse ma equivalenti per livello di difficoltà. Sempre a partire dallo stesso anno, chiunque abbia effettuato le prove Invalsi ha ricevuto la certificazione del proprio livello nelle materie d’esame.

Inoltre, a partire dall’anno scolastico 2019/2020 lo svolgimento e la partecipazione alle prove Invalsi è diventato un requisito per accedere all’esame di stato e poter sostenere la maturità.

 

UDA

Prima di affrontare il tema dell’insegnamento dell’educazione civica a scuola, cerchiamo di fare chiarezza su cos’è un’UDA.

L’UDA (Unità Didattica di Apprendimento), oggi parte centrale del processo educativo, rappresenta un insieme di attività che vengono affrontate con una molteplicità di strumenti. Si tratta di un percorso didattico interdisciplinare, solitamente organizzato intorno a una tematica o a degli obiettivi specifici, all’interno del quale avviene la cooperazione di più discipline e insegnanti. L’UDA si basa infatti sull’idea di una pluralità di conoscenze strettamente connesse, rifiutando in questo modo la convinzione che il sapere sia costituito da ambiti nettamente separati fra loro.

L’Unità Didattica di Apprendimento rappresenta inoltre un modello educativo che si discosta dalla lezione frontale e che pone l’alunno al centro del processo di apprendimento, rendendolo il protagonista dell’azione didattica, motivandolo, coinvolgendolo e richiedendogli una partecipazione più attiva e una maggiore autonomia in classe.

Con le Unità Didattiche di Apprendimento, infatti, l’alunno è chiamato a:

  • riorganizzare le proprie conoscenze e abilità;
  • fare uso sia delle competenze già acquisite in passato sia di quelle nuove, derivanti da insegnamenti e contesti diversi.

Per mezzo dell’UDA, dunque, l’insegnante non si limita a trasmettere all’alunno delle nozioni teoriche, delle conoscenze e delle abilità, ma ha il compito di stimolarlo a sviluppare e a riconoscere le sue capacità.

Come si progetta un’UDA

L’UDA può avere una durata che va da pochi minuti a un’intera ora ed è una metodologia che il docente può attuare:

  • nelle lezioni in classe, che avvengono in presenza;
  • nelle lezioni online, che si svolgono su piattaforme digitali.

Per essere creata, però, l’UDA deve seguire una precisa pianificazione. Dunque, come si organizza l’Unità Didattica di Apprendimento?

Le fasi che interessano la sua attuazione sono:

  • progettazione: scelta del tema, degli obiettivi e dei compiti da sottoporre agli alunni;
  • realizzazione: messa in pratica da parte dell’insegnante di metodologie didattiche induttivelaboratoriali e cooperative che coinvolgano in primo luogo gli alunni;
  • verifica: valutazione periodica e finale di un elaborato o di un’attività svolta dall’alunno.

Assistente Educativo Culturale

L’AEC – Assistente Educativo Culturale è una figura professionale istituita dall’articolo 13, comma 3 della Legge 104/92. Si tratta di un ruolo fondamentale a scuola, poiché si occupa dell’assistenza degli alunni con disabilità all’interno della classe. L’AEC, infatti, opera in diversi gradi e ordini scolastici, che sono:

  • scuola dell’infanzia;
  • scuola primaria;
  • scuola secondaria di primo grado.

L’AEC ha come compiti principali quelli di:

  • favorire l’autonomia degli alunni disabili sia all’interno della scuola, durante le attività didattiche e educative, che all’esterno della scuola, durante gite, uscite didattiche, visite culturali, campi scuola, ecc.;
  • facilitare l’integrazione e la comunicazione dell’alunno disabile in classe;
  • aiutare l’alunno disabile nelle attività igienico-sanitarie;
  • sostenere l’alunno disabile negli spostamenti all’interno della scuola;
  • assistere l’alunno disabile nel momento dei pasti, per l’assunzione di cibi e bevande;
  • partecipare alle attività di programmazione e di verifica dell’alunno che segue.

Svolgendo le attività sopra elencate, l’Assistente Educativo Culturale collabora con diverse figure professionali, tra cui:

  • Insegnanti;
  • Collaboratori scolastici;
  • Referenti delle strutture sanitarie e dei servizi territoriali.

Tuttavia, gran parte dei suoi compiti sono svolti affiancando l’Insegnante di sostegno e sono indicati a seguito della stesura del PEI – Piano Educativo Individualizzato.

Come diventare Assistente Educativo Culturale

Per ricoprire il ruolo di Assistente Educativo Culturale, come per diventare Insegnante di sostegno, occorre iscriversi ad un corso che abiliti alla professione. Solitamente, la formazione dell’AEC prevede un percorso della durata di un anno (circa 300 ore) e avviene con la partecipazione a:

  • lezioni teoriche;
  • lezioni pratico-applicative.

Inoltre, a chi si iscrive al percorso formativo, è richiesto lo svolgimento di un tirocinio presso Onlus o Enti pubblici. A seguito dell’iter sopra citato, l’aspirante AEC ha la possibilità di sostenere un esame finale e ricevere l’attestato di frequenza al corso.

Quali sono i requisiti per lavorare come Assistente Educativo Culturale

Vediamo ora quali sono i requisiti per lavorare come Assistente Educativo Culturale nelle scuole. A seguito del corso formativo di AEC, verrà rilasciato un attestato che abiliterà professionalmente e permetterà al candidato di trovare lavoro all’interno delle istituzioni scolastiche. L’AEC deve comunque essere in possesso anche di un diploma di laurea. Per accedere al ruolo non è obbligatorio uno specifico titolo di studio, tuttavia è preferibile che questo professionista sia un laureato in Scienze dell’educazione o Psicologia oppure un Operatore addetto all’assistenza delle persone (come OSS o ADEST) con esperienza in qualità di AEC. In questo modo, l’aspirante Assistente Educativo Culturale, abilitato e in possesso di un titolo di studio tra quelli sopra elencati, può inserirsi nel contesto lavorativo:

  • partecipando a un concorso pubblico (per esami o valutazione dei titoli);
  • presentando domanda (allegando il proprio curriculum vitae) alle istituzioni scolastiche per essere inclusi fuori graduatoria.

Di solito, gli AEC sono chiamati a prendere servizio a inizio anno scolastico, tramite delle assunzioni a tempo determinato e indeterminato, effettuate dalle scuole e dai Dirigenti scolastici utilizzando delle graduatorie provinciali.

 

 

Come si accede al servizio

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